giovedì 21 ottobre 2010

Il normale equivoco sulla normalità

Ovvero, sul come, fin troppo spesso, utilizziamo il termine "normalità" solo ed esclusivamente perché ci fa comodo, senza tenere minimamente conto del suo significato.

A questo punto una premessa: questo post parte, innanzitutto, da una risposta datami da Fiorestropicciato al post in cui ho presentato mia moglie ed in particolare alla frase in cui dice che "lei è assolutamente normale".

Vi siete mai chiesti cosa voglia dire normalità? O che cosa si voglia indicare con la frase "persona normale"?


il nocciolo centrale della questione sta nel fatto che, nel comune sentire, l’espressione “persona normale” ha una valenza qualitativa, pur non avendo un valore di per sé stessa, ma in quanto messa in relazione con quello che viene ritenuto il suo contrario, ovvero il termine “diverso” / “strano”. Infatti, quando diciamo che una persona è “diversa” o “strana”, spesso associamo a questi termini una valenza negativa e spregiativa ed è proprio questo a far sì che il concetto di “normale” diventi sinonimo di “morale”, di “buono” e di “giusto”.

Nel momento in cui si considera il termine normale di per sé stesso, però, si nota che la caratteristica principale non è qualitativa, ma quantitativa, ovvero: dato un gruppo eterogeneo di persone poste in un medesimo spazio e in uno stesso periodo storico la caratteristica o il comportamento che si definisce “normale” è quello riscontrato nella quantità più grande di persone. Portando il discorso sul piano della singola persona, possiamo dire che il comportamento o il pensiero “normale” di ciascuno di noi è quello che, in una medesima situazione ripetuta, si presenta più spesso rispetto agli altri. L’equivoco nasce, però, quando qualcuno di noi pensa che il SUO normale sentire sia considerato tale anche dalle persone che lo circondano e che quindi a loro volta adottino il suo stesso metro di valutazione.

Una conseguenza interessante di ciò è che, quando una persona riconosce in un’altra una caratteristica che ritiene positiva, spesso le viene automatico associarle con il termine “normale” un’affinità a sè stessa che non è assolutamente detto che la persona giudicata abbia, mentre, nel caso la caratteristica sia percepita come negativa, allora l’etichetta “strano” serve a giustificare la distanza che il giudicante vuole prendere, a volte senza nemmeno provare a conoscere chi ha davanti. Qquesto meccanismo, però, è l’essenza di ciò che si chiama pregiudizio.

Parlando di comportamenti che possono diventare normali o no a seconda dell’ambiente che ci circonda, prendiamo un esempio limite: l’atto di uccidere un essere umano. In tutte le società uccidere un'altra persona è qualcosa di assolutamente sbagliato, tanto è che legalmente punito in tutti gli stati della cui legislazione io abbia sentito parlare, eppure ci sono situazioni dove uccidere diventa un qualcosa di assolutamente normale, indipendentemente dal fatto che si possa considerare giusto o meno. Due esempi sono la guerra e le rivalità tra famiglie mafiose. Nel primo caso, infatti, uccidere non solo diventa normale, ma diventa necessario e giusto perché in guerra o si uccide o si è uccisi e non ci sono altre alternative, mentre nel secondo caso uccidere rimane un reato, ma ogni membro di una famiglia mafiosa considera assolutamente normale e doveroso l’uccidere un membro di un’altra famiglia rivale.

A questo punto le domande sono: cosa c’entra la normalità con la moralità, col bene e con la giustizia? Siamo poi così convinti che definire una persona come "normale" sia una cosa così positiva?

detto questo poi faccio notare una cosa: siamo poi così sicuri che, al giorno d'oggi, l'atteggiamento di lottare contro le avversità per conquistare la propria indipendenza sia il modo di vivere della maggioranza delle persone? o non è piuttosto il vivacchiare adagiandosi sul benessere che ci troviamo davanti, anche a costo di non essere indipendenti perché in fondo ci va bene così e non vogliamo stare a sbatterci più di tanto?


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